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Ero juventino, ho sfiorato l'Inter. Totti il pił grande. E su Maradona... - Intervista di Alessandro Vocalelli

Notizie || 13/11/2022

Chissà se in qualche modo è stato influenzato da Goethe, che amava ripetere: “Parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte”. Forse un’ispirazione per Zeman, che ha trascorso tutta la vita ad ascoltare. La dolcezza e l’amaro della sua adolescenza. I successi e le angosce di zio Cestmir Vycpalek. Il gusto di un calcio pulito e il retrogusto di una carriera segnata da mille battaglie. Il valore dell’etica e i tormenti di un calcio così sorprendente da non essere completamente compreso: perché spesso in un gol c’è un mondo e un confine, anche di banali ironie. Il grazie dei suoi campioni e i lamenti di controfigure che ambivano solo a risparmiarsi.
La felicità di quei dirigenti che, con le sue scoperte, ha arricchito e le accuse striscianti di chi si è
sentito attaccato nel suo patrimonio di privilegi. La vicinanza ai suoi figli: grazie al pallone o per colpa di un lacerante dolore. Ma Zeman ha soprattutto ascoltato se stesso. Ecco perché è straordinario che abbia finalmente deciso dimettere insieme le tante parole che ha tenuto gelosamente per sé. Svelando mille segreti e affidando un’autobiografia imperdibile alla penna speciale, alla curiosità, alla sensibilità di Andrea Di Caro, a cui consegnò 23 anni fa le sue prime confidenze e che lo ha accompagnato in questa sua unicità. Perché tanti hanno vinto, e lui da questo punto di vista non sarebbe neppure in classifica. Ma solo lui ha creato un partito, gli zemaniani. Un manifesto e un programma di intelligenza, passione ed integrità.

Lei racconta nel primo capitolo l’occupazione del suo Paese nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, con i carri armati e le migliaia di soldati inviati da Mosca. Cosa ha pensato il 24 febbraio, quando il mondo si è svegliato con la notizia della guerra in Ucraina?
«Mi è sembrato di rivivere un incubo, anche se ora è più drammatico e grave, perché ai miei tempi volavano al massimo pietre. Certo, non ho mai amato che comandassero solo quelli con il tesserino. Fatto sta che a un certo punto, mentre stavo a Palermo, hanno chiuso improvvisamente le frontiere. E io non sono potuto rientrare».

Malgrado tutto, dice che da piccolo era felice e non le è mai mancato niente, “neanche la libertà, perché non puoi desiderare ciò che non conosci”.
«E pensare che nel mio animo io sono sempre stato così: rispettoso delle regole, delle leggi, ma profondamente libero».

Suo zio Cestmir Vycpalek conobbe anche i campi di concentramento. Come si sopravvive a quei ricordi e come si convive, da ragazzi, con quei racconti?
«Mi ha parlato sempre poco di Dachau. Da cui molti compaesani non sono mai tornati. La sofferenza ti resta dentro».

La bellezza delle radici, di cui parla giustamente moltissimo, è nell’amore di sua madre e nell’esempio di suo padre. Ecco, sembra che il concetto di esempio sia stato sempre al primo posto nella sua scala di valori.
«La mia è stata una famiglia onesta, perbene. Ho cercato di ricordarmi sempre di questo. Anche se non sono un santo, e ho commesso i miei errori».

A 20 anni si ritrova a Palermo, ospite di suo zio, e lì comincia un viaggio di vita, con un pensiero ricorrente al mare
«Amo star lì, a guardare l’orizzonte. Dove sono andato, ed era possibile, ho sempre cercato case che ti permettessero di guardare il mare. Che mi regala quel senso di libertà e pacificazione di cui parlavamo».

E’ da lì che parte anche l’avventura calcistica. E a Coverciano conosce Arrigo Sacchi, che non smetteva mai di chiedere e di informarsi.
«Lui ha sempre vissuto per il calcio. Anche troppo. Per me è sempre stato divertimento».

Fatto sta che uno dei due deve aver sbagliato qualcosa...Sacchi con il 4-4-2, lei con il 4-3-3.
«La vera differenza non è mai stata nel modulo, ma nei giocatori. Lui ha avuto un grande Milan, io buonissime squadre, mai però competitive per uno scudetto o una Coppa. Per me il 4-3-3 è la massima espressione geometrica, ti permette di disegnare 50 triangoli perfettamente uguali. E poi...».

E poi?
«E poi io contro Sacchi non ho mai perso».

Scrive nel libro che l’unico calciatore al mondo capace di vincere da solo, fuori dagli schemi, era Maradona. Scusi la provocazione:nel 4-3-3 non ci sarebbe stato un ruolo adatto a lui.
«Lo avrei trovato. Lui poteva giocare ovunque. Davanti o... forse no, mezzo destro o mezzo sinistro».

Mi faccia capire: lo avrebbe trasformato in centrocampista…?
«Poteva benissimo giocare lì. Avrebbe dovuto accettare e rinunciare a qualcosa per la squadra».

A Foggia la sua esaltazione, dove nasce Zemanlandia. Damiano Tommasi, uno dei suoi traduttori più fedeli, ha detto: “Ho sempre pensato che nella vita bisogna essere zemaniani: attaccare, rimanendo se stessi”. Le piace come definizione?
«Io ho sempre cercato, con coerenza, di dare una mentalità vincente alle mie squadre. Con la Lazio sono arrivato secondo e terzo, che oggi sarebbe un grande successo e a quel tempo non contava niente. Oggi il vero traguardo è il quarto posto. Con la Roma sono arrivato quinto... stranamente nell’anno in cui erano in quattro ad andare in Champions».

Ha anche esaltato il concetto della fatica come unico mezzo per migliorare. Quando fece quel richiamo sull’abuso dei farmaci, poteva e doveva essere letto anche positivamente, a salvaguardia di tanti ragazzi. Invece fu visto solo come una provocazione. Qual è la persona che le è stata più vicina?
«Il professor Donati, gente che faceva sport vero. Il calcio non era più sport vero. E io non mi stancherò di ripetere che i farmaci servono per i malati non per i sani».

Oggi si sente garantito? Il calcio è veramente pulito?
«Se prima parlavo di tanti farmaci è perché avevo queste notizie. Ora non le ho. Anche se mi sembra strano... che la Wada abbia dichiarato una cosa: l’Italia è in percentuale il Paese dove si fa più uso di doping. Avranno qualche numero, non crede?»

L’altra battaglia epocale è stata sugli uffici finanziari. Si è parlato molto in questi giorni di plusvalenze e non solo. Da questo punto di vista il calcio è migliorato?
«Per me il calcio sta diventando sempre più business. Ma ci ha fatto caso? Quelli che vogliono fare sempre più business sono anche quelli che hanno più debiti. Vuol dire che non è la strada giusta».

Uno degli emblemi di questo calcio è il Mondiale in Qatar.
«Un’ assurdità. Il dio denaro impone di farlo lì».

Chi può vincerlo?
«Brasile e Argentina».

Per le battaglie che ha fatto è sempre stato considerato anti-juventino. Questa fama le provoca qualche rimpianto?
«Più fastidio che rimpianto. Perché io ero juventino, da piccolo. Purtroppo i loro atteggiamenti non li ho inventati io. Si pensa che Calciopoli sia nato nel 2006, invece è dal ’94 che c’era quel sistema...».

E’probabile, come si dice, che questa sua immagine di uomo contro le abbia impedito di allenare gli squadroni del Nord. Ma non riesco a credere che Massimo Moratti, con le sue idee, non le abbia mai proposto di andare all’Inter. Sbaglio?
«No, non sbaglia affatto. Me l’ha proposto due volte. La prima quando diventò presidente, ma io ero alla Lazio, dove stavo bene. La seconda volta ci incontrammo a Milano ma lui alla fine cedette la società a Thohir e io a quel punto ho rinunciato».

Ha sempre detto:“Il più grande? Totti”. Ma dopo di lui chi è stato il più forte?
«Nesta, negli Anni Duemila il più grande centrale al mondo».

Raccontano che Sensi le fece capire di essere stato costretto ad esonerarla, per far scendere - diciamo così - la pressione?
«Diciamo così... Se mi avesse tenuto non avrebbe avuto speranze di vincere…Ricordatevi che quell’anno ci mancarono 21 punti. Non esisteva il Var, ma gli arbitri c’erano.. E non erano dalla nostra parte».

A proposito della Roma, nel libro racconta che quando tornò la seconda volta, una delegazione di calciatori le chiese di posticipare di un’ora gli allenamenti, perché - scrive - c’era “chi doveva accompagnare i figli a scuola, chi la moglie da qualche parte, chi aveva bisogno di dormire un po’ di più per smaltire qualche nottata allegra”. Lei li ascoltò e...anticipò le sedute. Fatto sta che qualche partita dopo venne esonerato, e gli allenamenti furono immediatamente spostati dalle 10 alle 11.30.
«Ormai è difficile fare due volte la doppia, perché i ragazzi sono stanchi. Ma che vuole, una volta c’erano i contratti annuali: se non facevi bene, non venivi
confermato. Oggi i calciatori firmano per cinque anni. E anche se si allenano male o giocano male prendono il loro stipendio».

Alla Roma ora c’è Mourinho. Cosa pensa dell’accusa di scarsa professionalità, di tradimento, a un suo calciatore. Lei lo avrebbe fatto?
«Io no. Però Mourinho può fare questo e altro, visto che gli viene permesso. Lo scorso anno disse di avere calciatori di serie C… Può essere che non fossero i più bravi almondo, ma qualcuno li avrà pur chiamati a giocare in serie A. O no?».

Per Mourinho ha molta stima?
«Molta stima…Diciamo che lo ascolto volentieri, anche se non sono sempre d’accordo con quello che dice. Mi piace sentirlo».

Come diceva prima -ma lo spiega meglio nel libro - più volte si è sentito danneggiato dagli arbitri.
«Non è una sensazione, è tutto documentato. Era un sistema sbagliato, indipendentemente dal fatto che abbia preso di mira me o De Sisti».

Giancarlo De Sisti?
«Si».

Oggi con il Var sarebbe più garantito?
«Sul fuorigioco sicuro. Ne ho presi tanti di gol in fuorigioco».

Definisce Guardiola il miglior allenatore del mondo. Perché?
«Sfrutta le individualità al servizio della squadra».

Invece il calciatore migliore del mondo chi è?
«Fenomeni non ci sono più. Forse De Bruyne».

C’è anche la bellezza di una carriera lunghissima, di mille panchine. Una partita che vorrebbe rigiocare?
«Quella di Tenerife, che brucia ancora a me e a tutti i laziali. Ero senza difensori. Vincevamo 3-2 poi successe il patatrac. Chamot giocava con la spalla lussata, fu un’impresa trovare undici - mezzi rotti - da mettere in campo».

La sua vita è sempre stata all’insegna dell’etica e questo glielo riconoscono in tanti. C’è qualcuno a cui deve chiedere scusa?
«Ho sempre trattato tutti alla stessa maniera. Non ho mai voluto fare del male. Anche se qualcuno si è sentito penalizzato».

Magari De Rossi.
«La storia è molto semplice. Lui pensava di poter fare il regista e io gli ho sempre spiegato che nella Roma, quando le cose andavano al meglio, il regista era Pizarro. Lui era un incontrista. Penso che non ci siamo capiti anche se gliel’ho spiegato tante volte».

Vi siete chiariti in seguito?
«Ci siamo visti poco. Una volta c’è stato un incontro cordiale. Ora che fa l’allenatore gli auguro soprattutto una cosa, di trovare la via giusta. Che vuol dire lavorare per la squadra e non per i singoli».


L’ultima cosa: mi ha colpito molto ilc apitolo finale in cui parla delle lunghe notti, a volte insonni in cui - ed è comune - facciamo i conti con noi stessi. Mi sono però convinto che non sia il tempo per fare un bilancio.
«Ha ragione, vorrei fare ancora l’allenatore. Per questo - è una battuta - non volevo scrivere questo libro. Dicevo: fatelo dopo che sono morto».

Andrea Di Caro aggiungerà volentieri altri capitoli. Ma lei sa già dove intende allenare? Al Sud, immagino.
«Sì, al Sud, dove si vive di calcio».

La ritroveremo in una città di mare?
«Forse… altrimenti me lo porto dietro. Il mare».

Alessandro Vocalelli su La Gazzetta dello Sport del 13 novembre 2022